La ricerca del lavoro in Germania all’uscita dal mondo accademico

Vai al primo articolo di questa serie: La Burocrazia

Finalmente ho trovato un po’ di tempo per scrivere questo articolo e parlarvi della mia esperienza con la ricerca del lavoro in Germania. Tenete presente che la mia esperienza è ovviamente limitata alla mia personale situazione, ovvero alla ricerca del lavoro con il mio background di studi, competenze linguistiche e campo di lavoro target. Non è una regola generale su come si cerca lavoro in Germania e non sarà uguale per voi, se cercate lavoro in un campo diametralmente opposto e con qualifiche molto diverse dalla mia. Tuttavia credo che alcuni principi e differenze con il mondo del lavoro italiano possano applicarsi un po’ a tutti.

Il bivio all’uscita dal dottorato

Quando si finisce il dottorato di ricerca (ma volendo, anche prima quando si consegue la laurea magistrale), ci si ritrova davanti a un grande bivio: continuare con la carriera accademica oppure andarsene e rivolgersi verso altri orizzonti, ovvero le aziende. Io ho scelto di abbandonare la carriera accademica e il sogno di diventare professoressa universitaria, quindi ho preso la strada della ricerca in azienda.

Le posizioni all’interno delle aziende però non sono limitate come all’università. All’università le posizioni sono essenzialmente tre, con qualche variazione a seconda del paese: post-doc, ricercatore a tempo determinato e ricercatore a tempo indeterminato. A queste si affiancano le mansioni di insegnamento, che culminano quando si diventa professori ordinari.

In un’azienda farmaceutica, i dipartimenti sono tantissimi, ognuno specializzato in un ruolo ben definito, e i tipi di posizione tanti e totalmente ignoti per chi pensava che il mondo fosse fatto di post-doc e professori ordinari.

Un primo punto da tenere a mente è che per il mondo delle aziende, il dottorato di ricerca nella maggior parte dei casi non figura come esperienza lavorativa. Lo so, il dottorando lavora 60 ore a settimana, è sotto pressione e viene pagato (di solito male, ma viene pagato). Però no, non è esperienza lavorativa in azienda.

Un secondo punto è che il primo e fondamentale step per la ricerca del lavoro dovrebbe essere capire cosa si vuole fare, ed è quello che mi ha fatto perdere più tempo, perché mi ci sono voluti mesi e una sessantina di candidature per realizzare cosa volevo/potevo fare. Sì, ho detto proprio sessanta. Se aveste parlato con me alla fine del 2019, all’alba del sessantesimo CV che mandavo, vi avrei detto che tutti quelli che vi dicono che in Germania il lavoro vi piove addosso non hanno idea di cosa stanno parlando. La penso ancora così, perché non è affatto vero che il lavoro ti piove addosso. Ma oggi, guardandomi alle spalle, penso anche che se avessi deciso prima cosa volevo fare, mi sarebbero bastate una decina di candidature mirate.

Due situazioni estreme: il tedesco che sa cosa vuole e l’italiana che non ne ha idea

Per farvi un confronto tra due estremi e mostrarvi quanto il percorso può essere diverso pur arrivando allo stesso risultato, prendiamo la mia situazione e quella del mio compagno. Oggi lavoriamo entrambi nello stesso campo, e a dire il vero pure per la stessa azienda seppur in due dipartimenti diversi. La differenza per arrivarci però è stata abissale:

Lui: tedesco, con dottorato all’estero (l’ha fatto in Italia), livello di inglese molto alto, il suo campo è fisica/ingegneria. Sapeva fin da subito che avrebbe voluto fare quel mestiere. Ha mandato 5 o 6 candidature, l’hanno chiamato tutti immediatamente a fare il colloquio e nel tempo di un mese aveva un lavoro.

Io: italiana, con dottorato in patria (ovvero: nessuna esperienza all’estero), livello di inglese molto alto, livello di tedesco molto alto (ma non madrelingua), campo chimico/farmaceutico/cosmetico. Ci ho messo mesi prima di decidere che volevo fare il mestiere che faccio ora e non la ricercatrice, quindi ho perso mesi e decine di candidature cercando un lavoro che non era adatto alla mia (non) esperienza lavorativa. Quando ho iniziato a cercare nel campo che poi è diventato il mio attuale, ho comunque avuto delle rejections, a differenza del mio compagno, ma alla fine ce l’ho fatta in qualche mese.

Perché è stato così difficile per me rispetto al mio compagno? I fattori determinanti probabilmente sono stati:

1. Non essere tedesca. Inutile girarci intorno, quando si esce dal mondo accademico, essere tedeschi conta anche nella più internazionale delle aziende. Se non proprio il fatto di avere il passaporto tedesco, per lo meno essere madrelingua. Le cose per me hanno iniziato ad ingranare solo nel momento in cui ho potuto scrivere che il mio tedesco era “fluent”.

2. Il fatto che non esiste un corrispettivo della mia laurea in Germania. “Chimica e tecnologie farmaceutiche” non esiste in Germania ed è vista come un punto interrogativo. Come se non bastasse, oltre a questa laurea ignota io mi presentavo con la “Approbation” cioè l’esame di stato da farmacista, e un dottorato in “biofisica”, nonostante l’esperienza effettiva fosse come ricercatrice in formulazione farmaceutica.

In Italia è noto che una laurea in CTF comporta anche la licenza da farmacista, ma si sa che si è pur sempre dei chimici. Ma in Germania, laddove mi candidavo a una posizione da chimico, la prima cosa che vedevano sul mio CV era “farmacista”. Laddove mi candidavo da ricercatrice farmaceutica, leggevano solo “biofisica”. A un certo punto, per disperazione ho cercato anche come farmacista: in quel caso, “Approbation” parlava chiaro e ho ricevuto offerte di lavoro in un nano secondo, sentendomi però dire puntualmente che con quel dottorato lì in mezzo ero un po’ sovraqualificata.

I miti da sfatare

Alla luce di tutto ciò, cosa posso consigliare a chi parte da una situazione simile alla mia? Dal mio punto di vista, i miti che per me si sono sgretolati sono i seguenti:

1. “In Germania tutti parlano inglese quindi anche senza il tedesco si trova”. Questo può essere vero se cercate di rimanere in campo accademico, in settori particolari o in aziende molto molto giovani a Berlino, ma altrimenti è fondamentale imparare il tedesco e impararlo bene. Il livello richiesto per la maggior parte delle posizioni in aziende classiche è il C1 e devo dire che persino in lavori come il mio, dove il 90% del lavoro è su documenti in inglese, avrei grosse difficoltà se non sapessi anche il tedesco.

2. “il CV deve essere di una pagina e con un layout che lo differenzia dagli altri, così salta all’occhio”. Non è sempre così. Dipende da quanto è tradizionale l’azienda a cui mandate la candidatura. Tutti abbiamo cercato su internet i consigli per il CV perfetto che salterà agli occhi del boss di Big Pharma, e tutti abbiamo creduto al fatto che il CV perfetto è quello dal design moderno e lungo una facciata. Probabilmente questa strategia funziona benissimo per le aziende americane e, che so, per l’azienda giovane di Berlino di cui sopra. Ma ricordatevi che la Germania non è Berlino, e che la capitale rappresenta un caso unico e particolare. Il resto del paese è abbastanza conservatore e in particolare chi riceve i CV ha una certa aspettativa, che di solito non è quella di un CV di una facciata dal design all’avanguardia. Questo non significa che dovete usare l’orrendo CV Europass o simili. Significa solo che per certe aziende farete più bella figura con un CV più o meno classico (anche di 2-3 pagine, specialmente se pensate sia il caso di metterci le pubblicazioni) ma comunque personalizzato e con un layout semplice, chiaro e bello da vedere. Io l’ho fatto con Illustrator, perché le capacità di layout di Word sono limitate anche per un CV “classico ma bello”.

3. “Con una laurea o un dottorato in campo scientifico il lavoro ti piove addosso”. Non proprio. Se avete un titolo accademico alto, in particolare un dottorato, non sarà così immediato trovare una posizione per cui avete abbastanza “esperienza lavorativa” e allo stesso tempo non siete “sovraqualificati”. Inoltre, è importante capire a cosa corrisponde il vostro percorso di studi in Germania. Qualunque sia il nome del vostro corso, cosa sareste per un tedesco? Chimici? Farmacisti? Fisici? È importante, perché non è detto che chi vede il vostro CV si chieda a cosa corrisponde la vostra qualifica estera e magari vi scarta perché non capisce cosa siete, mentre accanto a voi c’è un candidato tedesco i cui titoli sono chiari e cristallini e gli rende il lavoro più facile.

Il concetto del lavoro

Chiudo questo lungo articolo rispondendo a una domanda che mi è stata fatta, ovvero se l’ambiente di lavoro è migliore in Germania rispetto all’Italia.

Sicuramente si dovrebbe valutare caso per caso, perché senza dubbio ci sono realtà ingiuste e precarie anche in Germania così come ce ne sono in Italia.

Una cosa che posso dire, però, è che ho l’impressione che in Italia il concetto che ci è stato messo in testa fin da piccoli e di cui i datori di lavoro si approfittano è che qualunque posto di lavoro, anche il più precario e al limite della schiavitù, va tenuto stretto a tutti i costi. Perché “di meglio non c’è”, oppure “bisogna fare gavetta”, oppure “meglio quello che niente”. Questo porta al sentimento generale che il datore di lavoro faccia un favore al dipendente per il solo fatto di non licenziarlo. Ecco, questa filosofia credo sia del tutto italiana, perché io non mi sento come se il mio datore di lavoro mi stesse facendo un favore: il contratto di lavoro è un contratto tra due parti, loro danno qualcosa a me e io dò qualcosa a loro. E mi sembra che questo sia un concetto abbastanza chiaro a tutti quelli con cui ho parlato qui.

Spero che un giorno questo concetto diventi chiaro anche ai miei coetanei che cercano lavoro e lavorano in Italia, perché è profondamente ingiusto vedere tanti della mia generazione, con le stesse qualifiche che ho io, incastrati in tirocini e lavori al limite della schiavitù solo in virtù di questa filosofia italiana del “bisogna fare gavetta”.

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Trasferirsi in Germania: resoconto dopo un anno dall’espatrio – Capitolo I: la burocrazia

Un anno fa ho preso queste tre valigie e mi sono trasferita in Germania. Sicuramente uno dei motivi principali è stato quello di seguire il mio compagno, ma l’idea di andare a vedere se era vero che “in Germania si sta meglio” mi ronzava in testa fin dai tempi delle superiori. 

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